IL TEMPO DEL GRANO:
Voci e Gesti della Mietitura a Deliceto
di Alessia Capano
La mietitura non è solo un lavoro nei campi: è un rito antico. Quando l’estate avanza e il grano si tinge d’oro sotto il sole, i campi si trasformano in un mare dorato e ondeggiante pronto per essere raccolto.
A Deliceto, la mietitura era il culmine di un ciclo agricolo iniziato mesi prima, tra semine, preghiere e speranze. Ogni gesto, dalla prima falciata all’ultimo covone legato con cura, era parte di una fatica condivisa, intrisa di canti popolari.
Era un tempo in cui il lavoro univa le famiglie, i vicini, i paesi. Si partiva all’alba, con la falce in mano e il pane nel sacco, e si tornava al tramonto stanchi, ma con gli occhi pieni di luce. La mietitura era la promessa del pane, del nutrimento, della vita.
Intervista
Al fine di ottenere maggiori informazioni sulle modalità di svolgimento della mietitura sono state condotte due interviste, una a Michele Natale, nato nel 1933 e l’altra a Paolo Palermo, nato nel 1938.
Come avveniva la mietitura in passato?
Innanzitutto si preparava il terreno togliendo tutti i massi e le pietre incontrati per strada. Dopo di che si procedeva con la divisione del terreno attraverso gli smaglioni, delle canne infisse, per far sì che i semi si distribuissero in modo equo sul terreno. La semina avveniva ad opera di un “seminatore” che portava con sé una bisaccia di stoffa a forma di cono, dalla quale attingeva per prelevare i semi che avrebbe poi sparso sul terreno. A primavera, poi, una volta cresciuto il grano, si procedeva con la rimozione delle piante infestanti, note come “pungent” e “matronn’l”.
Una volta seccato il grano, si procedeva poi con la raccolta.
Chi si occupava della raccolta del grano?
Di solito coloro che si occupavano della mietitura erano contadini provenienti da Anzano e i “marinis”, gente povera, che veniva dal mare e che si recava a Deliceto proprio in questa occasione per guadagnarsi da vivere, si mettevano in piazza, dormivano anche a terra, sperando che qualche proprietario li ingaggiasse per lavorare.
Il gruppo di mietitori ingaggiati prendeva il nome di “paranz”, di solito formata da 5 persone. Il capo si chiamava “lu staccator”, si occupava di dividere la superficie da mietere dal resto del terreno ed era attento a non valicare i confini della proprietà.
Come si svolgeva la raccolta del grano?
All’alba la paranz si recava presso il campo. Vi erano quattro falciatori disposti in diagonale che falciavano il grano utilizzando falci affilate. Producevano così dei piccoli mazzetti di grano, le manocchie, in dialetto “sciérmete”. La quinta persona dietro di loro, che solitamente era una donna che si occupava di legare le manocchie, dando vita alle “grégne”. Si occupava di questo lavoro una donna perché era colei che solitamente arrivava sul campo più tardi, portando con sé la colazione per tutti.

Cosa indossavate per proteggervi mentre utilizzavate la falce?
Si utilizzavano i “cannidd”, protezioni per le dita realizzate con pezzi di canna per evitare possibili lesioni causate dalla falce. Erano per quattro dita, al pollice si metteva il “cappuccio”, che era di cuoio ed era mobido, per garantire la prensione. Poi c’era il gambale che si metteva sull’ avanbraccio, dal polso fino al gomito, ed era fatto di cuoio, per evitare che il grano sfregasse la pelle. Successivamente si ammucchiavano tutte le gregne e si otteneva l’ausiedd, formato da circa 35 gregne. Nell’ausiedd vi era una disposizione ben precisa: la spiga veniva rivolta verso l’interno e lo stelo verso l’esterno in modo tale che non si bagnassero qualora piovesse.
Intorno agli anni ‘30 del ‘900 si cominciò ad utilizzare la mietitrice, una macchina specializzata nel taglio del grano. La mietitrice era trainata da circa 4/5 cavalli. Si trattò di una vera e propria innovazione che consentì di velocizzare il processo di raccolta del grano.
Dopo la raccolta si procedeva con il trasporto del grano che avveniva attraverso il cosiddetto “carr’tton”, cioè un carro di grandi dimensioni sul quale veniva posizionato il grano. Solitamente una persona che si trovava a terra passava le gregne ad un’altra persona posizionata sul carro. Una volta riempito tutto, si trasportava il grano nell’aia della propria masseria.
Dopo aver spostato gli ausiedd, si andava a “sp’culè”, ossia si andavano a raccogliere le spighe rimanenti e, anche dopo aver bruciato la restocc’, si tornava a raccogliere il grano arso.
Successivamente si procedeva con la “pesatura”, un processo mediante il quale di staccava il grano dalla spiga. Affinché ciò avvenisse, era necessario uno spazio di grandi dimensioni per consentire al bestiame di effettuare la trebbiatura e doveva essere esposta al vento. Poi le spighe si disponevano secondo una modalità ben precisa, in circolo con il frutto dentro e gli steli fuori, in modo che i chicchi restassero all’interno del cerchio e gli steli, che andavano poi a costituire la paglia, fuori.
Dopo di che si procedeva con la pesatura: gli asini giravano attorno al mucchio di spighe trainando un attrezzo di legno cilindrico, meglio noto come “ruocele”, che staccava li chicchi dallo stelo. Poi si procedeva con la ventilazione, ossia un procedimento attraverso il quale si separava la paglia dal grano, lanciando in aria quanto presente sul terreno con una pala o un rastrello.
Negli anni ’40 con l’arrivo della trebbia, il processo della pesatura venne eliminato. Nella trebbia si riponevano le spighe che venivano frantumate e separate. La paglia veniva raccolta da una contadina per evitare che si accumulasse. Si legava e veniva poi utilizzata per gli animali.
Poi si procedeva con la cernitura, si utilizzava “lu casc’catur”, un grande setaccio che serviva per separare ulteriormente il grano dalle “scaglij”, cioè dalle impurità.
Quando si terminava la raccolta del grano, si faceva una grande festa chiamata “Capocanale” e si cenava tutti insieme.
Questo articolo è stato realizzato con la collaborazione di Benvenuto Baldassarro, presidente della Pro Loco di Deliceto e con la collaborazione del formatore Paolo Pacella.