di Mariadonata Longo
Tra i lunghi filari di oliveti, la strada si snodava come un serpente silenzioso, disegnando curve morbide tra la terra rossa e il verde intenso delle foglie. Al termine di quel percorso antico, sorgeva un casolare abbandonato, dove il tempo sembrava essersi fermato, cristallizzato in un’epoca fatta di silenzi e memoria.
Una mattina qualunque, affacciandoti alla finestra, ti sorprende l’estate. Non è un giorno segnato sul calendario, ma un momento improvviso e vivido: il sole più alto, l’aria che profuma di fichi maturi, e quel senso di libertà che solo la fine della scuola può dare. Con la chiusura degli zaini e delle aule, riaffiorano i ricordi di un passato ancora vivido, come quello della Fiera del Levante, che ogni anno segnava un nuovo inizio.
Dalle dieci alle dodici, davanti alla televisione, eravamo incollati allo schermo a guardare grandi film in bianco e nero, capolavori che oggi chiameremmo “d’altri tempi”. Negli anni Settanta, la televisione entrava nelle case come un’ospite speciale, cambiando le abitudini, unendo le famiglie, accendendo i sogni. Era una piccola rivoluzione domestica, fatta di antenne sul tetto e bambini con gli occhi spalancati.
Era il tempo dei desideri semplici, dei pomeriggi lunghi e assolati, di quella magia fatta di poco ma piena di tutto: l’aria fresca della sera, i pasti condivisi, una famiglia riunita davanti a un vecchio apparecchio a tubo catodico.
Dopo la scuola, correvo tra gli ulivi come in un rituale di libertà. Giocavo a nascondino tra gli alberi secolari, le cui chiome raccontavano storie più antiche di quelle del mio stesso nonno. L’estate era un’esplosione di colori e profumi: il basilico fresco, la terra arsa dal sole, le cicale instancabili a far da colonna sonora.
E proprio il nonno, seduto all’ombra di un vecchio fico, diventava narratore di un tempo lontano. Mi raccontava storie di quando lui era bambino, con parole semplici ma piene di meraviglia, trasportandomi in un mondo dove tutto era più lento, ma forse anche più vero.
L’estate era un’esplosione di colori e profumi: il basilico strofinato tra le dita, il fico maturo colto al volo, il calore pungente delle pietre sotto i piedi nudi.
Il canto delle cicale faceva da colonna sonora a quel mondo incantato, accompagnando le storie del nonno, che parlavano di fate, di draghi nascosti tra i rami e di bambini coraggiosi. L’estate amplificava la magia di quelle leggende, e io credevo, con tutta l’anima, che ogni albero avesse un segreto da svelare. Guardavo il grano dorato che ondeggiava al vento, simile a un mare di onde bianche, mentre la strada davanti a me serpeggiava lenta come un nastro di terra battuta, conducendo verso sogni antichi e infiniti.
Il vento accarezzava le spighe dorate con la delicatezza di un sussurro, creando un suono dolce e sommesso che sembrava uscire direttamente dalla terra. I campi si muovevano in onde lente e armoniose, danzando all’unisono con il soffio del vento, come se la natura intera respirasse al ritmo dell’estate.
La luce del sole, intensa ma gentile, si rifletteva tra le spighe, generando un gioco di scintillii e movimenti che ipnotizzava lo sguardo. In quei momenti sembrava che tutto fosse vivo, come se anche l’aria brillasse di nostalgia e promessa.
La sera, tornavamo in paese. Era allora che ci veniva incontro una vera e propria esplosione di vita: l’arrivo di volti ritrovati, il trascinarsi allegro delle valigie, le case che si riaprivano dopo mesi, e le tendine bianche che svolazzavano leggere come mani che salutano da una finestra. L’estate, nel nostro paese, non era solo una stagione. Era casa. Ancora oggi, nel mio paese, l’estate è una festa che si rinnova ogni anno, come un rito antico che non teme il tempo. Le sagre riempiono le strade di profumi familiari: fritti dorati, pane caldo, dolci al cucchiaio e vino versato con generosità. Le bancarelle colorate invadono le piazze, tra luci tremolanti e richiami allegri, mentre gli amici che tornano da lontano si abbracciano come se il tempo non fosse mai passato.
C’è qualcosa di intimo e potente nell’estate di paese: un’energia che si respira nell’aria, tra le voci, tra le risate, tra le lucciole che brillano nei campi e le stelle che punteggiano il cielo come vecchie amiche. I gelati, freschi e cremosi, si sciolgono troppo in fretta nelle mani dei bambini, ma regalano istanti di pura felicità. L’atmosfera è leggera, viva. L’estate è un senso di libertà che ti fa sentire leggero, parte di qualcosa, connesso con gli altri in modo semplice, vero.
E poi ci sono loro, le vere custodi della memoria: le vecchiette sedute sull’uscio di casa. Ogni sera, puntuali come le campane, si sistemano sulle sedie impagliate o su sgabelli consumati dal tempo. Le mani rugose, le dita nodose, intrecciate tra le ginocchia, gli occhi attenti che scrutano il passare della vita. Sono lì, ogni sera, da sempre.
Parlano a bassa voce, si raccontano la vita, si scambiano ricordi e segreti, come se la memoria fosse un filo che non deve spezzarsi mai. L’uscio di casa, col legno consumato e la vernice che si stacca in angoli dimenticati, diventa il loro palco, il loro rifugio. Da lì osservano tutto: i bambini che rincorrono una palla, i giovani che si innamorano sotto i lampioni, gli uomini che tornano stanchi dai campi, le donne che ridono tra le chiacchiere e il bucato.
Sono sentinelle del tempo, testimoni silenziose di un mondo che cambia, ma che con loro rimane ancorato a qualcosa di profondo, di autentico.
E lì, su quegli usci, Passava l’estate. Passava la vita.
Ma mentre passava, loro la custodivano. E grazie a loro, oggi, noi possiamo ricordare.
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