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Elce Magazine

Dove nasce davvero la Violenza sulle Donne: la cultura che non vogliamo vedere

2025-11-25 07:06

Viola Nigro

Attualità,

Dove nasce davvero la Violenza sulle Donne: la cultura che non vogliamo vedere

Il Fallimento della Società tutta.    di Viola Nigro  Arriva novembre, e come ogni anno - puntuale, inesorabile - torna anche la Giornata mondiale con

 

 

 

Il Fallimento della Società tutta.

 

 

 

di Viola Nigro

 

 

Arriva novembre, e come ogni anno - puntuale, inesorabile - torna anche la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.
Torna con le sue luci rosse sui monumenti, le campagne social e le promesse istituzionali.
Eppure, dietro la retorica, i numeri non cambiano.
Donne uccise, picchiate, minacciate, umiliate. Quasi sempre da chi diceva di amarle.

Ma la domanda vera non è “quante sono”, bensì: perché accade ancora?
Da dove nasce tutta questa violenza?
E soprattutto: come si previene, prima che la cronaca la trasformi in una notizia di poche righe?

 

La radice culturale: la violenza non è follia, è educazione sbagliata

Partiamo da un punto fondamentale: la violenza sulle donne non è un raptus, non è “impazzito d’amore”, non è “una mente malata”.
Come spiega la criminologa Roberta Bruzzone, nella maggior parte dei casi si tratta di un comportamento lucido, reiterato, pianificato, che nasce da un modello relazionale distorto, alimentato da possessione, controllo, frustrazione e paura dell’abbandono.

La violenza di genere non nasce nella mente, ma nella cultura.
Nasce da secoli di narrazioni tossiche: l’uomo forte e dominante, la donna docile e compiacente.
Nasce da famiglie che educano le bambine a “non provocare” e i bambini a “non piangere”.
Nasce in quella sottile, quotidiana disuguaglianza affettiva che ci fa pensare che l’amore giustifichi tutto, anche il dolore.

 

Chi commette violenza: il volto dell’aggressore

Dietro la violenza non c’è (quasi mai) un “mostro”.
C’è un uomo comune, spesso integrato, che all’esterno appare normale.
È un uomo che non sa gestire il rifiuto, che confonde l’amore con il possesso, che vive la perdita del controllo come un’umiliazione personale.

Non serve un disturbo psichiatrico per essere violento.
Serve una educazione sentimentale mancante, una povertà emotiva profonda, una frustrazione che si traduce in dominio.
Spesso questi uomini non vedono se stessi come violenti: si percepiscono vittime, “traditi”, “provocati”, “non compresi”.

“Il violento non nasce in un giorno, si costruisce nel tempo. E si costruisce nella complicità del silenzio.”

 

La miccia: quando la relazione diventa una prigione

La violenza raramente inizia con uno schiaffo.
Inizia con una frase, con un controllo, con un “dove sei?”, con un “non uscire con lei, non mi piace”.
Poi arriva la svalutazione, la colpa, la minaccia, l’isolamento.
Il gesto fisico è solo l’ultimo atto di una trama di potere.

Chi subisce violenza spesso non si accorge subito di essere in pericolo, perché l’aggressore alterna momenti di affetto e pentimento; il cosiddetto ciclo della violenza: tensione, esplosione, pentimento, calma apparente.
È un meccanismo psicologico che lega la vittima e la rende vulnerabile.
Per questo la prevenzione deve iniziare prima, quando la violenza è ancora invisibile.

 

Prevenzione: la parola più dimenticata

Prevenire significa insegnare, non solo “punire dopo”.
Significa educare alle emozioni e non solo alle regole.
Le famiglie, le scuole e la società tutta hanno un ruolo enorme:

  • In famiglia, bisogna insegnare che l’amore non è controllo, che la gelosia non è passione, che la libertà non è una minaccia.
  • A scuola, bisogna parlare di educazione sentimentale e parità di genere come parte integrante del percorso formativo, non come argomento opzionale da “settimana tematica”.
  • Nei media, bisogna smettere di raccontare i femminicidi come storie d’amore finite male: non lo sono. Sono crimini di potere.

La prevenzione passa anche da lì: da come narriamo la violenza.
Le parole contano. Formano mentalità.
E una società che chiama “raptus” un omicidio non sta raccontando la verità: la sta normalizzando.

 

Famiglia, scuola, comunità: la catena della consapevolezza

La famiglia è il primo laboratorio emotivo.
È lì che i bambini imparano come si ama, come si litiga, come si chiede scusa.
È lì che una madre e un padre (o chi ne fa le veci) possono insegnare che rispetto e libertà sono due lati della stessa medaglia.

L’istruzione, invece, ha il compito di dare parole alle emozioni.
Perché chi sa nominare ciò che prova, difficilmente lo trasforma in violenza.
Serve una scuola che insegni educazione affettiva, intelligenza emotiva, gestione dei conflitti.
Perché la violenza si previene allenando alla relazione, non solo punendo la devianza.

 

Conclusione: cambiare il linguaggio per cambiare il mondo

Ogni novembre torniamo a parlarne.
E va bene, purché non ci fermiamo lì.
Perché la violenza di genere non è un “problema delle donne”, ma un fallimento della società tutta.
Finché la cultura continuerà a tollerare la prepotenza, a ridere del sessismo, a minimizzare la paura, nessuna legge potrà bastare.

La prevenzione non è uno slogan: è una responsabilità collettiva.
E sì, serve anche un po’ di ironia amara per dirlo:
perché se ogni anno ci ritroviamo a fare gli stessi discorsi, forse l’orologio svizzero non è rotto, siamo noi che non abbiamo ancora imparato a leggere l’ora.