Il diritto alla disconnessione come forma di libertà personale nell’era dell’iperconnessione.
dott.ssa Cristina Crespi
Dimentichi il cellulare in auto, entri in casa, il tempo di accorgertene e tornare a recuperarlo e ti trovi inondato di messaggi e notifiche.
Ore 17.45 - Whatsapp: Hai un messaggio.
Ore 17.50 - Telegram: “Ti ho scritto su Whatsapp, perché non rispondi?”
Ore 17.55 – SMS: “Ma dove sei, tutto bene?”
Il tutto in meno di un quarto d’ora.
Oggi viviamo, per fortuna o purtroppo, in un mondo estremamente iperconnesso.
Siamo praticamente sempre raggiungibili, il che alimenta una sorta di illusione di disponibilità costante. Sempre, per tutti.
Messaggi, chiamate, email, notifiche dai Social Network ci tengono costantemente "online", anche quando vorremmo semplicemente un attimo di pace da dedicare a noi stessi.
Basta spegnere il telefono ed è fatta, direte voi.
Sì, ma no.
Non funziona proprio così, perché, sebbene il telefono da mettere in un cassetto sia il nostro, non è una scelta che dipende totalmente da noi.
Il diritto alla disconnessione è un principio giuridico vigente, sancito dalla legge secondo cui i lavoratori hanno il diritto di non essere reperibili oltre l’orario di lavoro.
In poche parole, il diritto alla disconnessione riguarda la libertà di non dover rispondere a telefonate, mail o messaggi elettronici aziendali durante il tempo libero.
Fin qui in ambito lavorativo, ma che succede se proviamo ad applicare questo diritto alle comunicazioni digitali private?
Esercitare il diritto alla disconnessione nella sfera privata richiede anche (e soprattutto) che gli altri accettino i nostri limiti; occorre che capiscano che accantonare per qualche ora o qualche giorno (non sia mai!) lo smartphone non significa disinteresse o volontà di ignorare o trascurare chi ci vuole bene, bensì va visto come l’esercizio della libertà di decidere come e quando essere qualitativamente disponibili per gli altri.
In una relazione sana, che sia essa parentale, sentimentale o di amicizia, ognuno ha diritto ai propri spazi e il sacrosanto diritto di non essere sempre disponibile.
In ambito privato dunque, non si tratta più di una norma legale, ma di un principio legato al benessere personale improntato alla necessità di ritrovare equilibrio, spazio interiore e qualità nelle relazioni personali.
Nell’esercizio di questo diritto, il principale oppositore è il “vissuto della pretesa”.
Quando mandiamo un messaggio, spesso, anche senza rendercene conto, carichiamo quel gesto di una pretesa: ci aspettiamo una risposta, preferibilmente immediata, da parte del nostro interlocutore.
Se dall’altra parte otteniamo silenzio, anche per pochi minuti, può scaturire un senso di frustrazione, delusione ma soprattutto di insicurezza.
L’assenza di risposta viene percepita non come dovrebbe essere ovvio: “vabbè dai, sarà impegnata, quando potrà mi risponderà!” ma come un rifiuto personale, disinteresse, noncuranza.
Riconoscere e accettare le tempistiche dei nostri interlocutori significa imparare a lasciare andare il bisogno di controllo, ad avere fiducia e a vivere i legami in modo più maturo e rispettoso.
Dal canto nostro, dobbiamo imparare a non farci venire o, in caso, lasciare andare i sensi di colpa.
Chi non ha mai provato quell’opprimente senso di pressione sociale legato alla "risposta immediata post notifica"?
Se non ci rendiamo subito disponibili temiamo di essere visti e vissuti dagli altri come scortesi o, peggio, colpevoli. In realtà, possiamo tranquillamente procrastinare una risposta e, udite udite, non c’è neppure la necessità di inventarsi scuse per la mancanza.
“Scusa, ero sotto la doccia”, “Scusa, stavo guidando” e altre banalità simili. Evitiamole.
Nessuno dei nostri parenti o amici ha diritto per contratto alla nostra disponibilità 24 ore su 24.
Non siamo obbligati a essere disponibili subito e sempre né, tanto meno, siamo tenuti a giustificare ogni momento di assenza.
Viviamo in un mondo iperconnesso ma ciò non significa che dobbiamo rendere conto di ogni momento in cui siamo offline.
A volte non rispondiamo nell’immediato perché siamo occupati, stanchi, o semplicemente perché abbiamo bisogno di silenzio e tranquillità.
Insomma, possiamo decidere volontariamente di “staccare il cervello”. E va bene così.
Non rispondere subito a messaggi o chiamate è un diritto e, sicuramente, in quel messaggio, non sarà contenuto nulla che non possa aspettare altri dieci minuti per essere letto.
Oltretutto, questo senso di urgenza costante, spesso auto-imposto, alimenta stress e ansia, imponendoci ritmi poco sostenibili.
Educare in prima battuta noi stessi e a seguire i nostri amici e i nostri familiari a rispettare i nostri tempi significa costruire relazioni più sane, non condizionate dall'impatto emotivo del silenzio.
È stato ormai scientificamente provato che i suoni delle notifiche dei nostri smartphone, croce e delizia delle nostre vite, attivano un vero e proprio circuito di gratificazione immediata nel nostro cervello, unitamente a un desiderio compulsivo di controllo.
Si, avete letto bene, il suono delle notifiche, non il contenuto dei messaggi.
Ogni suono, o persino ogni semplice vibrazione, innesca nel nostro cervello un rilascio di dopamina che dà origine a un senso temporaneo di soddisfazione che però ci rende sempre più dipendenti da quel feedback istantaneo. Ciò conduce inesorabilmente a una concentrazione frammentata (sul lavoro, nello studio, ma anche semplicemente durante un aperitivo tra amici) poiché la nostra attenzione è costantemente focalizzata verso il probabile quanto imminente arrivo di una notifica.
La nostra concentrazione viene inoltre continuamente interrotta e dirottata su stimoli esterni spesso irrilevanti perché, ve lo posso assicurare, in caso di urgenza, emergenza o invasione aliena, le persone chiamano, non scrivono messaggi su Whatsapp o Telegram.
Nel lungo periodo, questa iperstimolazione costante compromette seriamente la nostra capacità di attenzione, alimenta ansia e stress, e riduce il tempo dedicato al silenzio e persino al riposo.
Oltre a noi, anche i nostri ragazzi crescono immersi in un mondo in cui l’essere sempre online è la norma, ma raramente viene loro insegnato che anche il tempo della disconnessione è prezioso.
Educare i più giovani a mettere confini, a rispettare quelli altrui e a comprendere che la qualità delle relazioni non dipende dalla velocità delle risposte, ma dalla profondità dell’ascolto attivo, è un passo fondamentale verso la tutela della loro salute mentale.
È in questo contesto che il diritto di spegnere il cellulare senza sentirsi in colpa o in difetto assume un valore cruciale.
